sembrava che quelli senza più paese fossimo noi: trascinandoci tra vicoli, piazze, negozi immobilizzati, tettoie posticce, pietre riposte in catalogo di ipotesi da ricomporre, porte intelaiate per evitarne la rovina, cercando con gli occhi la sagoma infranta che ora lasciava vedere inquadrature di cielo che, da quelle angolazioni, mai. abbiamo avuto voce per parlare solo per allusioni, per groppi ed incidenti, e loro invece con accenti asciutti e occhi eretti ad elargirci serene direzioni di prosecuzione, di pace fatta col sussulto che ha sfondato tutti i loro destini. arrivati in vetta al disastro, dove il villaggio non esiste che per tre roulotte in cerchio ed una nuova geometria delle case, fluttuante, ondulata sopra l’altopiano rettilineo, resta ancora un’ampia terrazza di sole che sfida il freddo d’altura e magliette di resistenza, senza lacrime di retorica, anzi, vino rosso in mano, una pertica per giochi semplici in ilarità generale, foto ad ogni gesto e arrivederci a domani, perché domani riaprirà l’alba, i cavalli s’arrampicheranno di nuovo per i dirupi, i semafori non impediranno di vivere e cucinare e mietere e guardare oltre le fratture.
